Il biologico continua a crescere, è sempre più presente sulla tavola degli italiani; ma in questa crescita c’è qualcosa di disarmonico che rischia di comprometterne il futuro.
Infatti oggi il biologico sta crescendo tanto nella grande distribuzione e nelle vendite on-line, ma sta perdendo molto nei negozi specializzati, che per tanti anni sono stati, insieme ai produttori, l’unico motore del settore.
A molti potrebbe non interessare nulla del destino dello specializzato e di tutte le persone che hanno dedicato la loro vita a far conoscere il biologico, a dissipare dubbi, a garantire con la certificazione, a battersi contro lo scetticismo di comodo, “tanto il bio non esiste”, “è tutto inquinato”, “il bio è coltivato vicino alle autostrade…”, ecc., ecc.
In realtà oggi la grande distribuzione sta semplicemente godendo di questo lavoro, ma se questo verrà a meno, ben presto caleranno anche le loro vendite. Io sono convinto che se vogliamo che il biologico continui a crescere è estremamente importante che si riesca a ritrovare un equilibrio fra i vari canali di vendita, combattendo da una parte il pressapochismo e l’arroganza della grande distribuzione e dall’altra il senso di impotenza e paralisi che ha messo all’angolo il canale specializzato che invece, credo, abbia ancora un ruolo e un peso importante, per arricchire e far crescere tutto il settore.
Cosa è successo?
È stato un gioco da ragazzi per le grandi aziende portarsi a casa il biologico: basta la certificazione.
Parola magica che in passato è stata la culla che ha protetto e fatto crescere il bio, ma che ora è diventata il vero fianco scoperto. Qualunque produttore oggi, a prescindere dalla qualità più o meno scadente degli alimenti convenzionali che produce, può con una semplice certificazione, diventare produttore bio.
Andate a qualunque fiera e troverete il bio negli stand più improbabili, magari una referenza sulle trecento del catalogo, ma che importa: l’obiettivo è mettere un piede fra la porta e garantirsi di poter gareggiare per uno spazietto nello scaffale del supermercato.
Infatti, se dal punto di vista agricolo, passare da una coltivazione convenzionale al biologico, non è affatto semplice, perchè implica una conversione dei terreni e soprattutto un metodo di coltivazione senza l’utilizzo di concimi e pesticidi chimici (che non è semplice e non garantisce la stessa produttività), nel caso della trasformazione spesso si tratta semplicemente di una operazione di sostituzione di un ingrediente con un altro e di un po’ di attenzione nello stoccaggio e nei processi produttivi, per evitare contaminazioni.
Il nodo è tutto qua: se fino a qualche anno fa gli ideali e la certificazione sono andati a braccetto, rafforzandosi a vicenda e proteggendo in gran parte il settore dai furbetti, ora è tutto più difficile.
Dal momento in cui la materia prima risulta “certificata”, la differenza la fa solo il prezzo: meno costa e meglio è e a nessuno viene in mente di chiedersi da dove è saltato fuori tutto questo bio all’improvviso; come fanno certe partite di cereali a costare così poco e da quale pozzo petrolifero salta fuori tutto questo olio extravergine di oliva bio italiano, se è ancora vero che le olive nascono sugli olivi!!
Ma certo, occorre intensificare i controlli, essere più rigidi nel rilascio delle certificazioni, severi nel combattere la contraffazione, far emergere i quantitativi di prodotto a “residuo zero” che improvvisamente diventano bio, ma non credo che sia sufficiente, specialmente quando i prodotti non arrivano da sotto casa, ma dalla Cina, dall’ Europa dell’est, da paesi del terzo mondo o in via di sviluppo, dove dire che i controlli sono approssimativi è usare un eufemismo.
Quindi?
Occorre ridare radici al biologico, riportarlo all’interno di un processo di crescita naturale, che accompagni l’aumento della capacità produttiva in agricoltura con l’attenzione ai processi di trasformazione.
C’è Bio e Bio e non è giusto mettere tutto nello stesso calderone. Ma se la discriminante è la bandierina verde non si riesce a fare differenza alcuna fra un “prodotto biologico” e un “prodotto certificato”. Facciamo un’altra certificazione? Il Bio più Bio? Il Super Bio?, L’ultra Bio? Non serve a nulla.
La differenza vera siamo noi, il nostro lavoro, i nostri valori e i nostri ideali e dobbiamo abbandonare la pigrizia che, salvo dovute eccezioni, ha fatto sì che ci accontentassimo di essere certificati.
La nostra differenza dobbiamo comunicarla in tutti i modi, cominciando con il prenderne coscienza: io sono Renzo Agostini e da 27 anni gestisco Terra e Sole con mia moglie e 20 collaboratori e la mia competenza sul biologico è infinitamente superiore a qualunque buyer della grande distribuzione che oggi acquista bio e fino a ieri carta igienica! Conosco di persona la gran parte dei produttori bio italiani; come lavorano e di chi ci si può fidare e da chi è meglio stare alla larga.
Se noi rappresentiamo la bio-diversità nel settore distributivo, dobbiamo marcarla, con le nostre storie, le nostre vite e i nostri prodotti, che però non potranno più accontentarsi di essere certificati, ma dovranno impersonificare questi valori; chi li acquista deve vedere il campo, sentire il profumo della terra, dare valore alla fatica di chi l’ha coltivato e di chi ne ha fatto pane, pasta, olio, vino!
I negozi specializzati dovranno veramente diventare specializzati e smetterla di atteggiarsi, nell’insegna, nel layout e nell’offerta, a supermercati bio! È una battaglia persa, un disvalore, che toglie qualità e competenza al nostro lavoro.
Tornare al negozietto? Oggi non si improvvisa più nulla. Io penso che un risveglio e una nuova opportunità per il canale specializzato dovrà per forza passare da una rete organizzata, da investimenti, da servizi comuni, da un brand che metta insieme chi si riconosce sotto questa bandiera. Per marcare la nostra presenza e consentire di tornare ad essere motori culturali e di ricerca, per far sì che sempre più il cibo sia l’energia che fa stare bene noi e il pianeta.